MIGRAZIONI AMBIENTALI: L’IMPATTO SULLA SALUTE MENTALE – TRA PERDITA DI IDENTITA’ E SOLASTALGIA

I disastri naturali, l’insicurezza alimentare, la siccità e l’innalzamento del livello del mare stanno costringendo decine di migliaia di persone a migrare. Si parla infatti di migrazioni ambientali proprio per definire lo spostamento forzato causato dal cambiamento climatico.

Nel 2016, circa 24.2 milioni di persone sono state costrette ad emigrare a causa di eventi naturali estremi – alluvioni, inondazioni, uragani, tifoni. L’Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM) prevede che entro il 2050 a livello globale ci saranno tra i 25 milioni e 1 miliardo di migranti ambientali. Gli spostamenti possono avvenire all’interno dei confini nazionali – migrando dalle zone rurali verso i centri urbani – o verso altri Paesi, per brevi o lunghi periodi di tempo o permanentemente.

Nonostante la scarsa attenzione sui collegamenti tra il cambiamento climatico, le sue conseguenti migrazioni e gli impatti psicologici che ne derivano, la pratica clinica mostra una profonda influenza tra migrazioni ambientali e salute mentale.

Le persone costrette a spostarsi, vivono il trauma di dover lasciare le proprie case, le proprie radici, per muoversi verso l’ignoto. Perdono ogni capacità decisionale e la speranza verso il futuro. Lo stress post-traumatico, associato alle reti sociali frammentate, alla separazione dalla famiglia, al ridotto senso di appartenenza conduce al manifestarsi di ansia, depressione e comportamenti aggressivi. Sintomi che vanno ad accentuarsi anche a causa della difficoltà economica, degli alloggi inadeguati, della scarsa educazione e dell’insicurezza lavorativa. Ci sono inoltre evidenze dell’aumento del tasso di dipendenze da alcol e droghe e in quello dei suicidi.

Il tutto è complicato dal fatto che a livello giuridico i migranti ambientali sono fuori dal diritto alla protezione internazionale, garantita dalla Convenzione di Ginevra del 1951, che concede il diritto di asilo solo a coloro che hanno oltrepassato una frontiera e hanno un fondato timore di subire persecuzioni in ragione della propria razza, nazionalità, religione, opinioni politiche ed appartenenza ad un gruppo sociale. Tutto questo implica che i migranti ambientali giunti nel luogo di arrivo non hanno la certezza di ricevere aiuti, sussidi e diritti. Si trovano invece ad affrontare condizioni di accoglienza ostili e si vedono negati i diritti umani di alloggio adeguato, appartenenza e identità di popolo.

Un esempio concreto di perdita di identità nazionale è quello del Kiribati. Qui il cambiamento climatico non è una questione da accettare o meno, ma una realtà di tutti i giorni. A causa dell’innalzamento del livello del mare infatti, questa piccola isola del Pacifico è condannata a scomparire dalle cartine geografiche e con essa si dissolverà anche l’identità di un popolo, le tradizioni, la lingua, la cultura. Molte comunità del Kiribati sono già state dislocate in altri Paesi e in meno di 20 anni perderanno l’intero territorio nazionale. È per questo che il governo ha messo in atto un programma di “migrazione programmata”, comprando territori in altre nazioni per consentire la ricollocazione. Questo fenomeno non ha precedenti nella storia dello Stato moderno e porrà nuovi problemi legati alla natura del concetto di Stato e di cittadinanza.

Potremmo raggruppare quanto scritto finora nella parola solastalgia, coniata dal filosofo australiano Glenn Albrecht. Una fusione dei termini solace (conforto) e nostalgia, che rappresenta un senso di angoscia e ansia prodotta dai cambiamenti ambientali; un sentimento che minaccia il senso di appartenenza a un luogo, di identità e che può portare a depressione. È una condizione globale, sentita più o meno intensamente da persone diverse in luoghi diversi e che attualmente si percepisce sempre di più per il continuo degrado ambientale.

La migrazione indotta dal cambiamento climatico sarà una delle principali fonti di sofferenza umana, disabilità e morte. Diventa quindi un imperativo morale tutelare la salute di coloro, che pur avendo influito meno allo sviluppo del cambiamento climatico, ne stanno pagando le conseguenze maggiori. Tenendo conto che la buona accoglienza è già una forma di prevenzione sanitaria, soprattutto per le malattie mentali.

Benedetta Armocida

Foto: ©huffingtonpost.com

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