TUBERCOLOSI: GIORNATA MONDIALE

24/03/2018 – In occasione della Giornata mondiale della tubercolosi, ripubblichiamo la nostra intervista al professor Mario Raviglione, direttore del Programma Globale per la Tubercolosi, presso l’Organizzazione Mondiale della Sanità a Ginevra. L’intervista originale è stata pubblicata da saluteglobale.it nel mese di ottobre 2017.

Un’occasione per riflettere su una patologia che rappresenta ancora oggi una delle prime dieci cause di morte al mondo, i cui determinanti sono strettamente legati alla povertà e all’ingiustizia sociale.

 

Conflitti, migrazioni e determinanti sociali della salute. Come influiscono da un punto di vista epidemiologico sul problema della tubercolosi?

In modo molto pesante. Se andiamo a vedere le basi della tubercolosi (TB), dobbiamo innanzitutto capire che si passa attraverso delle fasi: esposizione e possibile contagio, infezione latente, malattia conclamata e poi eventualmente, in assenza di trattamento, si arriva alla morte. Queste varie fasi sono influenzate da differenti fattori: l’esposizione alla malattia è fortemente correlata alle condizioni socioeconomiche, quindi è favorita da ambienti di vita poveri e sovraffollati, in particolare se scarsamente ventilati, per via dell’inquinamento domestico associato all’uso di combustibili fossili, che sappiamo essere fattore di rischio per la TB. Tutto ciò dipende da determinanti che, a loro volta – se andiamo a vederli nella prospettiva di traguardi degli Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile (OSS) – sono parte di altri ambiti e non direttamente di quello della salute: il settore della povertà (OSS n.1), il settore dell’energia pulita (OSS n.7) e il settore delle aree metropolitane (OSS n.11), solo per citarne alcuni.

Una volta che si ha il contagio, l’eventuale passaggio dallo stadio di infezione latente a quello di malattia conclamata è favorito da altri fattori di rischio – come la presenza di malnutrizione, HIV, malattie o condizioni non trasmissibili, diabete, alcool, tabacco e così via. La modifica di questi fattori non è solo legata all’ambito sanitario, ma anche ad altri settori come l’educazione, la nutrizione, il controllo del tabacco e dell’alcool. In sostanza, solo con interventi multisettoriali che dipendono da differenti settori sociali si possono ottenere risultati efficaci.

Bisogna inoltre prendere in considerazione il fattore migrazioni, quindi tutti i fenomeni che ne stanno alla base – dalle condizioni di vita inadeguate, alla presenza di pace e giustizia in un paese, alla malnutrizione – che dipendono a loro volta da molti altri determinanti che non appartengono all’ambito sanitario direttamente, ma che influenzano la salute in modo drammatico.

 

In questi anni come direttore del Programma Globale sulla Tubercolosi, quali sono i principali risultati che ha ottenuto e quali sono le principali sfide che si prospettano nell’immediato futuro?

Diamo una prospettiva storica.

La TB ha sempre avuto dei programmi all’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), sin dalla sua nascita, nel 1948. Questi programmi erano pensati in modo verticale. Un cambiamento è avvenuto – soprattutto nei paesi occidentali – negli anni ‘70, quando la TB iniziava a declinare; in seguito, è avvenuto anche in molti altri paesi, come conseguenza del movimento di Alma Ata. Negli anni successivi ad Alma Ata, il programma TB dell’OMS venne addirittura smantellato e fu ripreso solo nel 1989, quando ci si rese conto che la TB era tutt’altro che eliminata, che c’era bisogno di rivedere le normative e di rimettere in piedi un sistema di sorveglianza. Io ho cominciato a lavorare qui a Ginevra come JPO proprio nel ’91, agli inizi del nuovo programma. Sono arrivato con una piccola unità di una decina di persone. L’anno prima erano solo in tre ad occuparsi di TB qui all’OMS. Io venivo dal mondo dell’AIDS degli Stati Uniti, ai tempi dell’inizio dell’epidemia. E mi son trovato invece a far la lotta alla TB, che mi sembrava un ambito un po’ noioso, del passato. Non mi rendevo conto che si parlava di 10 milioni di casi – e ci rendemmo tutti conto solo quando ci furono le prime stime del problema. Allora che avvenne? Verso la metà degli anni ‘90 abbiamo messo in piedi la strategia DOTS (Directly Observed Treatment, Short Course, ndr), con l’idea di arrivare ad una standardizzazione diagnostica e terapeutica della TB, in un’epoca di anarchia terapeutica. Diagnosi e terapia non dovevano più essere lasciate all’improvvisazione del singolo medico, che magari trattava una persona con tre farmaci, un’altra con due e un’altra ancora con quattro, favorendo peraltro l’insorgenza di resistenze. Altro punto fondamentale della strategia DOTS è stato l’introduzione di un sistema di monitoraggio standardizzato. Uno dei miei primi incarichi è stato proprio quello di mettere in piedi un sistema di sorveglianza globale per la notifica dei casi e per la valutazione della frequenza della farmacoresistenza. E sono contento, perché in effetti, se ci penso un attimo, 23 anni fa non avevamo nulla in mano, non avevamo dati. C’erano queste prime stime, ma è stato proprio con la standardizzazione del sistema di notifica che abbiamo spinto i paesi a segnalare i casi diagnosticati in modo universalmente accettato e i casi di farmaco-resistenza. Hanno aderito praticamente tutti tranne l’ex URSS, che usava i propri tipi di classificazione. A quel punto ci trovammo a comprendere molto meglio qual era la situazione. Fino a metà degli anni ‘90 vigeva una situazione di caos, tant’è che il collega algerino citato sopra ripeteva sempre l’espressione “therapeutic anarchy” (anarchia terapeutica, ndr).

Verso la fine degli anni ’90 ci si rese conto che i traguardi stabiliti allora non sarebbero stati raggiunti entro il 2000, come prefissato in una risoluzione dell’Assemblea Mondiale della Sanità nel 1991. Gli obiettivi di allora prevedevano la diagnosi di almeno il 70% dei nuovi casi stimati ogni anno e la guarigione di almeno l’85% dei casi diagnosticati. Questi furono posticipati al 2005, ma ci si rese conto della necessità di un’accelerazione, un po’ come sta accadendo ora.  L’accelerazione si ottenne effettivamente a partire dal 2000, quando, durante una conferenza dell’OMS – tenutasi ad Amsterdam e focalizzata unicamente sui 22 paesi responsabili dell’80% del fardello globale della TB – si sviluppò un movimento meno tecnico e più politico. L’accelerazione si è vista molto bene nel numero di casi riportati, notevolmente aumentato negli anni successivi. Parallelamente si riscontrava un incremento dei tassi di guarigione. Quello che notammo è proprio che l’incidenza della TB a partire dai primi anni ‘2000 ha incominciato a ridursi. Finalmente i malati vengono guariti, anche se spesso molto tardi nel corso della malattia, quando altri sono già stati contagiati e questo mantiene quel pool di 1.7 miliardi di persone infettate. Ci sono stati paesi in cui si vide un notevole progresso. Prendiamo ad esempio il caso della Cina, che ha fatto dei prevalence surveys (studi mirati a rilevare il numero totale di casi di una patologia nella popolazione in un determinato momento, ndr) – al giorno d’oggi considerati i migliori metodi epidemiologici per le stime – nel 1990, nel 2000 e nel 2010, dimostrando inequivocabilmente una riduzione quasi del 50% del numero dei casi. Ci sono molti altri paesi che hanno fatto notevoli passi in avanti, in quanto a riduzione dell’incidenza e della mortalità. Paragonandola al ’90, la mortalità da TB nel mondo è scesa di oltre 40 punti percentuali. Da notare però che il declino dell’incidenza è talmente lento da essere controbilanciato dalla crescita demografica. Di conseguenza, anche se da un punto di vista di percentuali l’incidenza sta diminuendo e così anche la mortalità, da un punto di vista di numeri si notano solo cambiamenti limitati. Quindi, sostanzialmente, la situazione è decisamente migliore rispetto a quando ho iniziato io 25 anni fa, su questo non ci sono dubbi, perché vediamo dei risultati, abbiamo i tassi di guarigione dei paesi e le tendenze, mentre una volta non sapevamo nulla. Al tempo stesso bisogna sottolineare che, mentre vent’anni fa si pensava che con diagnosi e terapia standardizzate saremmo riusciti a far declinare la TB, si è visto che tutto ciò avviene molto più lentamente del previsto, proprio per i motivi a cui accennavo prima, cioè che la TB va vinta in un modo multisettoriale. Non basta avere un buon programma, perché un buon programma non è in grado di diagnosticare tutti i casi o di trattarli tutti in modo adeguato. Bisogna prevenirla. E per prevenirla bisogna controllare i fattori di rischio, i determinanti, che possono andare dalla promiscuità abitativa, dalle condizioni di vita povere e così via alla malnutrizione, all’alcool, al tabacco, all’HIV. Le grandi sfide sono queste. Come andiamo ad affrontare il problema in modo intersettoriale? Possiamo cercare di sensibilizzare la società e di influenzare le decisioni dei governi, però noi, come “industria della salute”, se posso usare questo termine, non siamo in grado di controllare la povertà e possiamo solo influenzarla a livello microeconomico. Lo stesso vale per la nutrizione, che possiamo controllare solo parzialmente. Quindi le grandi sfide sono effettivamente queste, noi come “industria della salute” possiamo e dobbiamo influenzare tutti questi altri settori, facendo loro capire che, se risolviamo il problema della povertà, risolviamo anche il problema della TB, proprio come è avvenuto nell’Europa dell’ovest nel secolo scorso e in modo accelerato a partire dagli anni ‘50.

Per quanto concerne la nostra attività specifica, ad oggi ci sono nuove problematiche da risolvere, come per esempio la diffusione a tappeto dei nuovi mezzi diagnostici rapidi. Ormai dal 2011, noi raccomandiamo di usare Il GeneXpert per la diagnosi, cosa che non sta avvenendo con la rapidità che ci si attendeva. Adesso finalmente l’India si muove, quest’anno hanno triplicato il budget e stanno acquistando centinaia di dispositivi Genexpert; il Sudafrica l’ha messo in tutto il paese, però la Cina per il momento latita, molti paesi latitano. Stanno aspettando e questa attesa non fa altro che facilitare la diffusione della TB.

 

“E in vista del 2030, ritiene che gli OSS siano realizzabili?”

Io penso che la strategia sia molto solida, perché tocca molteplici aspetti: dell’assistenza, alla ricerca, passando per politiche sanitarie e sistemi sanitari. Quando questa risoluzione è passata nel 2014 ci si attendeva che ciò stimolasse i governi a muoversi, a fare di più, ad investire. Ma questo non sta avvenendo con l’intensità che ci si aspettava in ogni paese. Sta avvenendo in India, perché il Primo ministro Modi si è reso conto che la TB è un problema di grande portata e quindi ha triplicato il budget dedicato; sta avvenendo in Sudafrica grazie ad un ministro molto sensibile al problema della TB; ma non sta avvenendo nella maggior parte degli altri paesi. Di fronte ad una situazione del genere è ancora troppo presto per vedere i risultati. Ci vuole del tempo prima che una strategia venga adottata da tutti i paesi, e che poi dall’adozione si passi effettivamente all’azione – cioè, ad esempio, la diffusione capillare del GeneXpert, della terapia preventiva, di regimi efficaci per contrastare la multi-resistenza. Purtroppo passa del tempo, perché i governi ci dormono sopra, in poche parole. E, solo per concludere, il discorso è che ci vuole davvero un’accelerazione, ed è quello che cerchiamo adesso di ottenere con questi incontri, riunioni ad alto livello – qualcuno le ha definite dei “carrozzoni” – ma possiamo star qui a non far niente e attendere che tutto vada per conto proprio, oppure possiamo cercare di stimolare, promuovere pratiche adeguate, spingere ad investire di più. Quello che stiamo facendo con l’aiuto della Russia è esattamente questo, il 16 e 17 novembre 2017 ci sarà a Mosca una conferenza ministeriale dell’OMS in cui porteremo il numero più alto possibile di paesi al mondo.  E l’idea è proprio quella di montare un tale momentum, per cui i ministri che parteciperanno, alcuni dei quali magari non hanno la minima idea dell’enorme portata della problematica TB, perché focalizzati su argomenti più di moda – come le malattie non trasmissibili, i sistemi sanitari, le resistenze antimicrobiche, l’ebola – se ne rendano conto. I programmi TB esistono, piaccia o meno, e quindi devono avere la capacità di funzionare da un punto di vista almeno normativo, quindi di sorveglianza e di approvvigionamento di ciò che è necessario – nei distretti, nelle cliniche e così via. L’obiettivo è che al termine dell’incontro di Mosca i ministri tornino a casa pensando: “dobbiamo fare qualcosa”. Come ha fatto l’India e come sta facendo il Sudafrica. Lo stesso avverrà, mi auguro in maniera ancora più incisiva, l’anno prossimo, quando all’Assemblea generale dell’ONU per la prima volta il problema TB verrà affrontato, ci auguriamo, dai leader dei paesi, quindi ad un livello ancora più alto. Creando un simile momentum politico, auspico si possa arrivare a delle decisioni importanti in termini di investimenti.

 

“Un’ultima domanda: il taglio degli aiuti annunciato da Donald Trump avrà un impatto sui programmi di lotta alla TB e se sì, di quale natura?”

Sicuramente il rischio è importante, perché la lotta alla TB nel mondo è finanziata in gran parte da fondi americani. Gli europei sono latitanti in quel senso. Su oltre 8 miliardi di dollari che si ritiene debbano essere gli investimenti annui per la TB, ivi compresa una componente di circa 1/3 che proviene dal rafforzamento dei sistemi in senso lato (quando si fanno questi calcoli, si va a vedere la parte specifica TB – quanto costano i farmaci eccetera – e la parte che dipende dai sistemi sanitari – cioè dal fatto che ci siano le infermiere pagate, i medici pagati, i servizi e così via), sappiamo che sono solo circa 6 quelli messi a disposizione. Quindi c’è un gap di oltre 2 miliardi di dollari. Se andiamo a vedere i 6 miliardi a disposizione, l’80% proviene dai fondi paese, ovvero fondi domestici. Perché questo? Perché i paesi che hanno il grande problema TB sono principalmente i BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa, ndr) e i MICs, cioè i paesi a reddito intermedio. La TB è diffusa anche nel continente africano, che ha i tassi pro capite più alti al mondo, però l’Africa conta solo per il 25% del numero dei casi. Per cui non stupisca che l’80% dei fondi investiti oggi siano fondi domestici. Di quel miliardo di fondi esterni, l’80% proviene dal Fondo Globale e il restante 20% da altri finanziatori, in primis il governo americano (USAID). Si tenga presente che un terzo dei fondi distribuiti dal Fondo Globale dipendono dagli Stati Uniti. E nel caso specifico della TB, anche il rimanente 20% dei fondi esterni dipende in gran parte dagli Stati Uniti. Quindi, se un giorno il governo americano tagliasse i fondi all’agenzia di cooperazione americana – cioè USAID – e al Fondo Globale, è chiaro che tutto il sistema di finanziamento esterno collasserebbe: questo miliardo disponibile oggi, potrebbe ridursi in modo catastrofico. Ancor più drammatico sarebbe l’impatto per settori come malaria e HIV, diffuse soprattutto in Africa, in paesi molto dipendenti da fondi esterni. Quindi, in un certo senso, abbiamo una duplice sfida: continuare a spingere i paesi endemici a medio reddito a investire i propri fondi domestici (uno dei grandi temi che affronteremo a Mosca a novembre) e al tempo stesso mobilizzare più fondi esterni per i paesi più poveri. Non bisogna però trascurare il fatto che si parte già da una situazione di 2 miliardi di dollari di deficit: e allora, se gli USA tagliano, è chiaro che i 2 miliardi di deficit aumentano e ci allontaniamo dalla possibilità di raggiungere gli obiettivi. Senza investimenti non si va da nessuna parte. L’unica possibilità è che questo vuoto venga colmato da altri donatori, ma non so quali possano essere oggi. In Giappone sono molto sensibili al problema perché ci saranno le Olimpiadi nel 2020 e hanno identificato la TB come una delle possibili minacce alla sicurezza sanitaria. Quindi sono interessati e sono attivi nel senso che anche loro mobilizzano fondi, anche se non tantissimi. Il Canada mobilizza fondi, ma più che altro per ricerca operativa, non tanto per diretta assistenza ai paesi. E non ho parlato della mancanza di fondi per la ricerca, circa 2/3 dei 2 miliardi che si stima siano necessari ogni anno. Anche questi finanziamenti oggi provengono principalmente dal governo USA e dalle fondazioni americane, in primis la Fondazione Bill & Melinda Gates. Di conseguenza, anche nella ricerca contro la TB i rischi di tagli e di riduzioni importanti non sono trascurabili.

 

Lorenzo De Min

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