La pandemia COVID 19 rappresenta una delle più grandi sfide dell’epoca moderna affrontate dalla comunità internazionale. Una sfida per la salute dei popoli di tutto il mondo, ma anche sfida di organizzazione sanitaria, sfida economica, sfida politica. E sfida al benessere mentale.
Sono numerosi gli studi attualmente in corso sul costo della pandemia in termini di salute mentale, grazie a psicologi, associazioni ed enti dedicati che si muovono per fornire supporto alla popolazione.
In una recente intervista, il filosofo Massimo Cacciari diceva: “Leggo malissimo, scrivo con difficoltà, non mi concentro. È una situazione angosciante (…). Chi può stare bene a casa? Che fantasie idiote sono mai queste? Solo un irresponsabile può avere l’animo sereno in un momento così” [1].
Timori diffusi riguardano la paura di ammalarsi e di morire, paura di perdere i propri cari e di sentirsi impotenti nel proteggerli, paura di evitare di avvicinarsi alle strutture sanitarie col rischio di essere infettati durante le cure, paura di perdere mezzi di sussistenza, di non essere in grado di lavorare durante l’isolamento, paura di essere socialmente esclusi, paura di essere messi in quarantena a causa dell’associazione con la malattia, con sentimenti comuni di impotenza, noia, solitudine e depressione dovuti all’isolamento [2].
“Confinamento: dalla seconda settimana c’è un deterioramento del benessere mentale”, questo il titolo di uno studio condotto in Francia, volto ad indagare l’impatto del confinamento sulla salute mentale della popolazione francese. Nicolas Franck, psichiatra e co-autore dello studio, sottolinea come, a partire dalla seconda settimana di isolamento, avviene un’alterazione del benessere mentale, vale a dire del modo in cui sentiamo la nostra vita quotidiana, colpendo in particolare le persone più fragili, come le persone con disabilità, gli anziani, gli studenti, le donne, oltre che i professionisti impegnati in prima linea. Questa alterazione si traduce in una perdita di speranza, in incapacità di trovare piacere nella vita quotidiana e di vedere le cose in modo positivo, creando così terreno fertile per lo sviluppo di disturbi depressivi. La relazioni sociali, gli scambi con i nostri cari generano speranza e proteggono dalla disperazione; quando queste vengono a mancare o vengono limitate, come avviene nel caso del confinamento, perdiamo quel fattore protettivo dato dal supporto sociale. Il non sapere quando usciremo dal confinamento e quale sarà la nuova normalità a cui dovremo abituarci sono un’ulteriore fonte di preoccupazione ed ansia.
Anche i risultati di uno studio cinese non ancora pubblicato, mostrano che dopo due mesi di confinamento il tasso di disturbi mentali è significativamente aumentato, con quasi una persona su due affetta da disturbo. La paura, la preoccupazione, le incertezze e i fattori di stress a cui si è sottoposti durante l’epidemia COVID-19 possono portare a conseguenze anche a lungo termine all’interno delle comunità, delle famiglie e degli individui più vulnerabili. Come emerge dal Briefing elaborato dal IASC Reference Group on Mental Health and Psychosocial Support in Emergency Settings, i potenziali rischi riguardano la stigmatizzazione dei pazienti sopravvissuti con conseguente rifiuto da parte delle comunità, rabbia e aggressività contro figli, coniugi, partner e familiari, sfiducia nei confronti delle informazioni fornite dal governo e da altre autorità.
Nel contesto che stiamo vivendo, la tutela e il supporto della salute mentale, individuale e comunitaria, deve essere una priorità. È importante che i governi e le autorità competenti diano informazioni precise alla popolazione e che forniscano strumenti adeguati. È importante che le comunità e gli individui si prendano cura di sé stessi, mantenendo uno stile di vita sano, e ricordandosi di chiedere aiuto.
Clelia D’Apice
[1] huffingtonpost.it
[2] The Lancet