PAESI A RISORSE LIMITATE: GLI AIUTI ECONOMICI NON BASTANO: COSA FARE?

16/10/2017 – Pubblichiamo una testimonianza di Rana Dajani, biologa molecolare Giordana.

“Sono abituata a colleghi provenienti da fuori dal Medio Oriente e dal nord Africa, i quali presumono che fuga di cervelli e mancanza di fondi siano gli ostacoli principali per la realizzazione di progetti di ricerca nella mia regione. Ma la mia esperienza è diversa” – inizia così l’intervista a Rana Dajani, recentemente apparsa sulla rivista Nature.

Dajani sottolinea come spesso i problemi non nascano dalla mancanza di fondi, ma dal modo in cui essi vengono utilizzati. “Le attuali pratiche di finanziatori e università fanno sì che i nostri fondi – già limitati – vengano spesi in maniera inefficiente. Abbiamo bisogno di più investimenti in sistemi amministrativi e di maggiore flessibilità, perché la scienza è imprevedibile e creativa”.

Tra gli esempi negativi forniti dalla Dajani, il caso di un ricercatore mediorientale che si è visto rifiutare il rimborso delle spese di viaggio, previste dal suo progetto di ricerca, per la mancanza degli scontrini originali emessi dalle stazioni di benzina. O il caso di un altro collega, che, sempre nella stessa regione, dopo essere riuscito a trovare un istituto in grado di effettuare la tipologia di analisi genetica di cui aveva bisogno per il proprio progetto, si è visto rifiutare il rimborso perché l’istituto non era stato selezionato tramite asta ufficiale pubblicizzata sui giornali locali. Solo dopo un anno di tentativi è riuscito ad ottenere il finanziamento che gli spettava.

Dajani però riporta anche esempi positivi, come quello dell’istituto in cui lavora, dove la nuova direttrice – anch’essa ricercatrice – ha snellito la burocrazia necessaria per ottenere i rimborsi. Altro esempio positivo è quello dell’American University di Beirut, che ha creato un apposito dipartimento che si occupa unicamente di logistica, gestito da personale esperto in questo settore, con conseguenze positive anche sulla quantità di fondi ottenuti dall’università. Il problema, continua Dajani, è che “ancora pochi funzionari universitari nei paesi in via di sviluppo hanno adeguate conoscenze scientifiche e in materia di gestione dei fondi per la ricerca […]. Quando ho assunto un responsabile di laboratorio per svolgere mansioni amministrative come l’ordine di attrezzature, molte persone mi hanno detto che mi stavo concedendo un lusso. Istituzioni come l’Università di Harvard, dove mi trovo attualmente in qualità di visiting fellow, ricevono fino al 69% dei finanziamenti per coprire i costi indiretti, che possono essere investiti in infrastrutture e spese generali di gestione. Ben diversa è la situazione in caso di finanziamenti internazionali concessi a ricercatori in paesi in via di sviluppo, che raramente coprono costi relativi ad infrastrutture e formazione; in alcuni casi i documenti in cui i filantropi concedono i finanziamenti proibiscono esplicitamente di spendere soldi in qualunque cosa che non sia direttamente correlata al progetto finanziato. E persino quando le risorse per coprire spese generali e costi di gestione sono disponibili, le università locali spesso esitano a investirli in beni non materiali come stipendi o progetti formativi. Preferiscono spenderli per l’acquisto di strumenti ed attrezzature. In un caso specifico, il finanziamento copriva l’acquisto di un sequenziatore di DNA ma non la sua manutenzione. Lo strumento è durato solo tre anni. Come possiamo risolvere problemi di questo tipo? Attraverso la creazione di sistemi gestionali efficaci. I finanziatori devo fare in modo di assicurare che chi riceve i fondi sia provvisto di personale amministrativo e capacità per poter usare il denaro in maniera efficiente; laddove queste risorse non sono presenti, i finanziatori devono aiutare a crearle. Le agenzie dovrebbero incoraggiare la nomina di amministratori con esperienza nel campo della ricerca. Potrebbero inoltre considerare il finanziamento di programmi di formazione, anche presso altre istituzioni, per gli amministratori. Le persone coinvolte hanno bisogno di sedersi attorno ad un tavolo e parlare dei problemi in tempo reale. Quando le discussioni avvengono – se avvengono – spesso sono sotto forma di scambi di email e la maggior parte delle comunicazioni avviene all’interno dei singoli gruppi di lavoro e non tra di essi […]. I gruppi perdono così possibilità di creare contatti e di cogliere dettagli importanti. Per ogni sovvenzione concessa, finanziatori, amministratori universitari e scienziati dovrebbero parlare insieme del progetto, per identificare bisogni e potenziali conflitti. Potrebbero in questo modo mettere in atto iniziative per promuovere cambiamenti, cosa che costruisce senso di responsabilità e crea precedenti positivi. Queste discussioni potrebbero ridurre molti ostacoli che impediscono agli scienziati che lavorano in paesi in via di sviluppo di utilizzare le sovvenzioni in maniera efficiente. La presenza di strutture di base che permettano la condivisione di attrezzature costose permetterebbe un taglio di costi superflui e metterebbe a disposizione ulteriori risorse. I costi inerenti al mantenimento delle attrezzature, al pagamento degli stipendi e alla formazione del personale dovrebbero essere inclusi nei budget […].

Spesso chi dona soldi per un progetto in un paese di via di sviluppo sente di compiere un’azione nobile. Tuttavia, ciò di cui si ha davvero bisogno è più complicato – seppur fattibile. Per far sì che i finanziatori ottengano risultati migliori, è necessario che anch’essi incontrino direttamente gli amministratori e gli scienziati nei paesi a risorse limitate, ascoltino le loro sfide e decidano insieme cosa fare. Solo in questo modo si potrà veramente fare la differenza”.

L.D.

 

Foto: © A. Awad

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *