SE IL CONSUMISMO FA LA FELICITA’: IL COSTO SOCIALE E AMBIENTALE DEL NATALE

“Dobbiamo salvare il Natale dalla pandemia!”. Questo è il motto corrente, con il governo preoccupato di deludere gli italiani costringendoli a rinunciare ai festeggiamenti in famiglia e allo spacchettamento dei regali.

Ma che cosa significa “salvare il Natale?”. Se da un lato vuol dire tenere a bada la curva epidemica, dall’altro è in tutta evidenza un’azione svolta per incrementare i consumi e irrobustire il PIL: “più che salvare il Natale dobbiamo salvare vite, ma certamente non possiamo permetterci di fermare l’economia in un momento in cui sta andando bene e sta crescendo. Ormai è evidente che non si tratta di un rimbalzo ma di una crescita che sta diventando strutturale, che va accompagnata, e non possiamo interrompere in questo momento” (Stefano Patuanelli in occasione del XIX Forum Internazionale dell’Agroalimentare e dell’Alimentazione).

Sebbene il potere persuasivo delle campagne promozionali realizzate durante il Black Friday e il Cyber Monday abbia spinto il 53% degli italiani a dare il via all’acquisto dei doni di Natale già nel mese di novembre – le stime dell’Osservatorio eCommerce B2C riferiscono una spesa italiana di circa 1,8 miliardi di euro, il 21% in più rispetto al 2020la crescita economica desta non poche preoccupazioni, specie per Confcommercio che ha previsto un lieve calo dei consumi natalizi, stimando una spesa di “soli” 6,9 miliardi
rispetto ai 7,4 miliardi dello scorso anno. Quest’anno per i regali di Natale si spenderanno 158 euro pro capite rispetto ai 164 euro dello scorso anno, l’8% in meno rispetto al 2019 e oltre il 36% in meno rispetto al 2009.

Tra gli acquisti più gettonati vi sono senza dubbio articoli dell’industria della moda e dell’elettronica. Nulla di male, ma questi a livello globale sono tra i maggiori responsabili dell’ingiustizia ecologica e sociale del nostro tempo. Nonostante i rischi associati ai consumi, e ancora di più ai sovra consumi, siano da individuare e quantificare lungo tutta la filiera produttiva – a partire dall’estrazione delle materie prime, alla produzione, allo sfruttamento dei lavoratori e delle lavoratrici, al trasporto, all’utilizzo del prodotto e al suo smaltimento – la loro distribuzione geografica è fortemente diseguale, poiché si concentrano prevalentemente nei Lower Middle Income Countries (LMICs), dove viene esternalizzata la produzione e dove la corsa al profitto mette sul piatto grandi questioni etiche, come il degrado ambientale, gli impatti sulla salute fisica e mentale, lo sfruttamento lavorativo, la violazione dei diritti umani, l’ingiustizia di genere e intergenerazionale.

Attualmente, la fast fashion è una delle industrie a più alto impatto sul Pianeta a causa delle emissioni annuali di 4-5 miliardi di tonnellate di CO2, di 79 trilioni di litri d’acqua consumati, di 190.000 tonnellate di inquinamento primario da microplastiche negli oceani e di oltre 92 milioni di tonnellate di rifiuti tessili, molti dei quali finiscono in discarica o vengono bruciati, comprese le grandi quantità di stock invendute. Ciononostante, la domanda di abbigliamento continua a crescere: nel periodo 1975-2018 si è verificato un aumento della produzione tessile globale pro-capite da 5,9 kg a 13 kg all’anno, facendo prevedere una crescita pari a 102 milioni di tonnellate entro il 2030. Il grande successo della fast fashion deriva dalla sua innegabile capacità di democratizzare la moda: maggiore disponibilità di capi di abbigliamento per tutte le classi di consumatori. Fin qui tutto bene, ma tale capacità è ottenuta e basata su un
modello predatorio di business, tutto centrato su una performance sostenuta delle vendite (Niinimäki, et al. 2020), e realizzabile attraverso lo sfruttamento intensivo della manodopera. Nell’industria della moda, infatti, sono impiegati circa 60 milioni di lavoratori, di cui il 75% – 80% sono donne che oltre ad essere sottopagate (salario di 0,11 $-0,35 $/ora) (ILO 2019) e costrette ad orari più lunghi e faticosi, sono sottoposte a violenze fisiche e verbali (Cowgil & Huynh, 2016; Hasan et al., 2017 in Niinimäki, et al. 2020) e relegate ai ruoli più bassi della catena produttiva a causa di una cultura
patriarcale che non allenta la presa (Chavero 2017). Ciononostante, i marchi che esternalizzano la produzione non si interrogano sulla sostenibilità dei loro sistemi produttivi, tanto meno si preoccupano per lo sviluppo e la sopravvivenza delle persone che lavorano nell’industria tessile. Al contrario, i marchi continuano a realizzare i propri siti di produzione negli slum delle grandi città asiatiche e africane, mostrandosi più che ciechi di fronte a innegabili fenomeni di violenza e sfruttamento (Khurana & Muthu 2021). Non è da meno l’industria dell’elettronica, strettamente legata allo sfruttamento delle risorse naturali e dall’estrazione di grandi quantità di minerali. Basti pensare che per produrre un miliardo e mezzo di IPhone venduti all’anno, devono essere estratti 51 milioni di tonnellate di roccia mineraria, per la cui estrazione sono richieste circa tredici tonnellate di acqua. Ogni smartphone inquina circa 100 litri di acqua e, solamente in Europa, il loro ciclo di vita è responsabile di 14 milioni di tonnellate di emissioni di CO2 ogni anno. Uno studio del 2018 ha stimato che, nel 2040, l’industria dell’informatica contribuirà al cambiamento climatico per più della metà dell’attuale peso dell’intero settore dei trasporti (Lotfi Belkhir & Elmeligi 2018). Se in Europa la vita dei dispositivi elettronici fosse estesa di un solo anno, si risparmierebbe un quantitativo di emissioni pari all’eliminazione di due milioni di auto dalle strade. Da un punto di vista sociale non è meglio, la smania per l’ultimo modello di smartphone alimenta anche lo sfruttamento minorile. Nel 2016 Amnesty International ha denunciato grandi aziende tech per l’acquisto di batterie da compagnie che affidano l’estrazione del cobalto ai bambini della Repubblica Democratica del Congo. Questa, per esportare più del 50% della fornitura mondiale di cobalto, sfrutta il lavoro di circa 110.000-150.000 minatori artigianali (creuseurs nella RDC). Uno studio recente ha dimostrato che il modello di estrazione mineraria congolese sottopone le persone a relazioni di potere distruttive e disumanizzanti, a sfruttamento violento, perpetua insicurezza di genere e a maltrattamento minorile (Sovacool 2021).

A questo va aggiunto che i prodotti viaggiano da una parte all’altra del mondo e in vista del Natale i volumi di viaggio aumentano a dismisura, al punto da rendere difficoltosa la gestione dei picchi della domanda, soprattutto sulle piattaforme eCommerce. Lo scoppio della pandemia e i blocchi forzati alle catene di approvvigionamento al dettaglio, hanno cambiato le abitudini dei consumatori che oramai fanno ricorso allo
shopping online anche per l’acquisto di beni alimentari e farmaci. Le modalità di consegna just-in-time aumentano la quantità di rifiuti dovuta agli imballaggi, la quota di energia per lo stoccaggio delle merci e l’impronta di carbonio dovuta ai trasporti. Inoltre, le spedizioni più piccole e frammentate mettono a dura prova i corrieri che, oltretutto, sono spesso numericamente insufficienti per gestire il carico di lavoro. Dunque, contestualmente all’aumento della domanda di beni, si registra un incremento della domanda di autisti, spesso sfruttati e sottopagati dalle grandi Internet Company.

Come vediamo, al modello estrattivista-predatorio su cui si regge la società odierna non è concessa una vacanza nemmeno a Natale. Ma questo non dovrebbe essere motivo di stupore se si pensa che il grande business natalizio non è stato interrotto nemmeno nel 2020 quando, in un anno scandito dalla chiusura di scuole, cinema e teatri, si diede comunque via libera alle zone gialle proprio per consentire di esprimere più o meno
convulsivamente lo shopping natalizio, con grandi ripercussioni sui contagi nelle settimane seguenti.

L’assillante mantra della crescita economica ha trasformato il Natale nell’ennesimo invito all’acquisto-mania come massima espressione alienata di sé, figlia di un sistema che si regge su un consumismo sfrenato e inevitabilmente sullo sfruttamento incessante di risorse e manodopera a basso costo. La magia del Natale investe solo una parte del mondo, quella che nonostante la conclamata evidenza di una vera e propria crisi ecologica si ostina a parlare di sviluppo come unica soluzione possibile per uscire dai danni che la pandemia ha causato. Salvare il Natale dalla pandemia dovrebbe comportare una riflessione non sul come aumentare i consumi, ma piuttosto sul come limitarli e sul come creare un sistema economico in grado di soddisfare i bisogni umani nel rispetto del Pianeta e delle comunità, riconoscendo il diritto ad una vita degna anche a coloro che sostengono i costi sociali, ambientali e sanitari di una produzione a basso
costo basata su una scarsa qualità dei prodotti a brevi cicli di vita.

Questa è epoca di transizione ecologica. Ma non basta utilizzare il termine “sostenibile” per addolcire il termine “sviluppo”, il cambiamento deve essere anche culturale, deve smuovere le coscienze e sovvertire l’individualismo, la violenza, il materialismo e l’avidità che dominano gli attuali processi di produzione e consumo. E forse solo così salveremo, davvero, il Natale.

di Carmen Storino

Riferimenti

Belkhir L., Elmeligi A. (2018), “Assessing ICT global emissions footprint: Trends to 2040 & recommendations”, Journal of Cleaner Production, vol. 177.
Chavero S.T. (2017), “The unsustainability of fast fashion”, Datatèxtil, n. 36,
https://raco.cat/index.php/Datatextil/article/view/321850
Cowgill, M., Huynh, P. (2016), “Weak minimum wage compliance in Asia’s garment industry”, Asia-Pacific Garment and Footwear Sector Research Note, vol. 5.
ILO (2019), “ILO100: ten ways the international labor organization has transformed the global garment industry”, https://betterwork.org/2019/01/22/ilo100-ten-ways-theilo-has-transformed-the-global-garment-industry/
Khurana K., Muthu S.S. (2021), “Are low- and middle-income countries profiting from fast fashion?”, Journal of Fashion Marketing and Management: An International Journal.
Niinimäki K., et al. (2020), “The environmental price of fast fashion”, Nature Reviews Earth & Environment, vol. 1.
Sovacool B.K. (2021), “When subterranean slavery supports sustainability transitions? power, patriarchy, and child labor in artisanal Congolese cobalt mining”, The Extractive Industries and Society, vol. 8.

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